Recensione di Truth: film sulla morte del giornalismo
20 Feb
Anno 2004. George W.Bush sta per essere rieletto e 60 minuti, il programma di inchieste giornaliste più autorevole d’America, sta impacchettando un servizio bomba sui fatti del 1973, quando l’allora Tenente Bush riuscì a evitare di andare in Vietnam grazie a spintarelle politiche e l’arruolamento nella Guardia Nazionale Aerea. Mary Mapes (Cate Blanchett), produttrice della trasmissione, ottiene dei documenti riservati, fa verifiche, coinvolge ex militari e analisti. La notizia sembra verificata coi controfiocchi, inattaccabile, lo show va in onda condotto dal celebre anchorman Don Rather (Robert Redford). L’inchiesta fa il botto.
Il giorno dopo iniziano le grane. Alcuni blog conservatori mettono in dubbio l’autenticità dei documenti, secondo loro scritti ai giorni nostri con Microsoft Word, gli intervistati ritrattano, le fonti ammettono di aver detto bugie. Inizia un’inchiesta all’interno della Cbs, saltano le teste, si va per avvocati.
Questo è Truth. Significa Verità. Ma il film diretto nel 2015 dall’esordiente James Vanderbilt, che si ispira al memoriale scritto dalla stessa Mapes, non è un Tutti gli uomini del presidente versione 2.0.
A differenza del caso Watergate qui la stampa ne esce sconfitta; è un film sulla morte del giornalismo d’inchiesta e forse dello stesso giornalismo: troppo costoso, rischioso, scomodo, difficile, sorpassato dalla velocità del primo blog che passa e meno remunerativo delle trasmissioni di info-tainment. In una parola: sconveniente.
“I giornali non li legge nessuno”, dice oltretutto la protagonista.
La Mapes sarà stata una grandissima professionista, ma sinceramente non sembra la paladina del giornalismo anglosassone che separa i fatti dalle opinioni. Dice che non c’era “niente di politico” nella sua inchiesta, ma è abbastanza evidente che pur di raccontare un episodio capace di sputtanare Bush Jr abbia commesso più di una leggerezza giornalistica. E oggi, ai tempi dei social, la cosa è smascherabile in 5 minuti.
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