Intervista a Gualtiero Marchesi: “Cannavacciuolo? Mai visto nella mia cucina”

22 Feb

La mia intervista al decano degli chef Gualtiero Marchesi su Libero.

Parli di MasterChef e lui cita Seneca. Discuti di cucina vegana e tira in ballo Shönberg, di show cooking e risponde con Einstein. Difficile parlare di cose terrene con Gualtiero Marchesi, il padre della cucina italiana, il primo di tutti i cuochi star, maestro di tantissime firme importanti della ristorazione del Paese. Milanese, è stato il primo italiano a ricevere le tre stelle Michelin, riconoscimento che poi ha rifiutato polemicamente: «La cucina non può essere subordinata in voti».

Al tavolo del Marchesino, il suo ristorante di fianco al Teatro Alla Scala di Milano, tra opere d’ arte e torchi per anatre e chateaubriand, Marchesi, classe 1930, rettore dell’ Alma (Scuola Internazionale di Cucina Italiana) parla di vino, cibo, arte e filosofia. Ma di poca, pochissima televisione.

Lei ha sempre criticato la cucina in tv, MasterChef compreso. Adesso fa un programma, Il pranzo della domenica. Perché?

«Non mi piace la spettacolarizzazione della cucina, che è un mestiere duro e pesante dove serve professionalità. Non amo la cucina in tv. Questo programma su Canale 5 mette a confronto il professionista e il dilettante, alla fine alcuni di loro hanno diritto a frequentare il corso di Alma, altri sono altri eliminati».

cannavacciuolo

Ma Masterchef lo guarda?

«No».

A Sanremo lo chef Antonino Cannavacciuolo ha parlato dei tempi di cottura dell’ uovo ed è stato massacrato dai social. Ha detto che l’«uovo à la coque cuoce in sei minuti» e «l’ uovo sodo in 10-12». Li vuole dire lei i tempi giusti?

«Ah non lo so, ho dimenticato tutto. Il guaio è che Cannavacciuolo dice di avere lavorato con me, ma non mi risulta. Ha lavorato a Capri quando io non c’ ero nemmeno, facevo una consulenza. Ma lasciamo perdere. La gente intelligente e colta non guarda quelle cose, non entriamo in quel tranello. Sa chi è Giorgio Grai?».

No.

«Il più grande enologo mondiale, mio coetaneo. C’ è stata la battuta che mi attribuiscono, “il vino mi fa schifo”. Grai ha scritto un articolo di risposta che racconta il mio rapporto con il vino. In sintesi dice che mi conosce da tanti anni, ricorda di quando mi aveva insegnato a cucinare i funghi porcini, e che insieme abbiamo sempre degustato il vino, che deve creare eleganza e gradevolezza. In assenza di armonia e arte sì, il vino può essere sgradevole. La prima carta dei vini seria è nata con me nel 1961 quando lavoravo ancora coi miei».

E poi cosa è successo?

«Da 17 anni non bevo, non ne sento più il bisogno, il mio fisico non lo regge. Quando si degustano i vini non si mangia, quando degusto il cibo non voglio bere. A volte il vino diventa un intruso. Poi non sopporto i sofismi: questo o quel vino va bene con quel piatto, eccetera».

Gualtiero Marchesi con il suo celebre "riso oro"

Gualtiero Marchesi con il suo celebre “riso oro”

Che rapporto ha con i blog di cibo e Tripadvisor?

«Non sopporto le critiche sui telefoninini. Io li uso solo per chiamare e rispondere. Ormai tutti si permettono di giudicare. C’ è una bellissima frase forse di Einstein: “La scienza è oggettiva, il gusto soggettivo”. Come è vero».

Da ragazzo avrebbe mai pensato di diventare lo chef italiano più conosciuto all’ estero?

«No. Sono nato figlio di osti. Due persone straordinarie. Mia madre comandava con dolce fermezza, il clienti ruotavano intorno a lei perché sapeva trattare con tutti. Mio padre era uno chef di grandi alberghi. Sono convinto che l’ alta cucina tornerà nei grandi alberghi: per professionalità e costi da sostenere. Io non pensavo che la cucina sarebbe diventata il mio lavoro. Disegnavo bene, mia madre mi ha iscritto alla Feltrinelli, una scuola di perito tecnico meccanico. Poi ha avuto un lampo di genio: mi ha mandato a Sankt Moritz a lavorare in sala come apprendista. In dieci giorni siamo passati di grado, e dissi: “Guardate che è merito mio”. Domandavo sempre il perché delle cose. Lo stesso ho fatto con quelli che hanno lavorato con me. Non basta dire: “Fai così”».

E poi?

«A 20 anni sono tornato a casa, lavoravo in sala con i miei. Ero appassionato di teatro, di musica. Frequentavo il campo artistico milanese, i miei amici erano pittori, scultori. Pistoletto, Pomodoro, Tadini, posso andare avanti una settimana. Da appassionato di musica ho conosciuto una pianista, e per tre anni sono andato a lezione da lei. Un giorno mi disse: “Sei distratto”.Diventò mia moglie».

 E la cucina?

«Ho smesso di suonare il pianoforte e mi trovo una nidiata di musicisti. Il lavoro iniziava a entrare dentro di me. Nel tempo ho capito quanto mi hanno trasmesso davvero i miei genitori. Per esempio, anni fa, dopo il caffè, servivo sempre del sottobosco “perché pulisce la bocca”. Mi sono ricordato da dove venisse questo vezzo, da mia madre che mangiava sempre mezza mela per quel motivo».

 Più che un cuoco si definisce un compositore.

«Un cuoco è un compositore. Una volta ho fatto un decalogo, che poi ho ristretto a tre voci. 1) C’ è il cuoco come operaio-cucitore, quello che deve sapere le temperature, il tecnico puro, che esegue le ricette come sono 2) Poi c’ è il compositore, uno che compone un piatto 3) Poi l’ artista, quello che sublima tutto».

E lei è…?

«La 3».

Si definisce un artista?

«Discutevo con Ermanno Olmi e dicevo che come esiste l’ orecchio assoluto esiste il palato assoluto. E lui: “La cucina è la più grande delle arti, c’ è la fisica e la chimica”. Noi avremmo bisogno di tanti cuochi. Che non si rompano la testa: le ricette esistono, perché continuamente a inventare altre cose?».

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 Provi a prevedere qualche tendenza o innovazione in cucina.

«Tra mille anni tutto sarà diverso da oggi. Difficile immaginare come. “A causa del mutamento, la nostra conoscenza del mutamento non sarà mai definitiva”, è di Arnaldo Momigliano. Se lei sapesse come si mangiava quando avevo 20 anni io. Tutto stracotto, sempre. Poi c’ è stata l’ invasione dei francesi. Ricordo delle tagliatelle con la panna e il salmone affumicato. Con la panna! Terribili».

E cosa ne pensa della cucina vegetariana e vegana?

«Le mie figlie sono entrambe vegetariane. Le consiglio a Milano il ristorante Il Joia, è un’ esperienza: Pietro Leemann è uomo di grande cultura. Non ho mai amato molto la carne, ho sempre preferito l’ uccellagione, la quaglia, il fagiano. Le bestie grandi invece… Forse sto diventando vegetariano pure io. Mi piace la pasta, poi adesso ho scoperto una pasta di cereali. È una novità assoluta. Fantastica, e ha sapore. Io non divido mai l’ olio dal pecorino e il burro dal parmigiano. E la mangio così. O col pomodoro fresco».

C’ è invece un alimento che nella sua cucina non c’ è mai stato?

«Se non c’ è mai stato non me lo ricordo. Le posso dire cosa adoro. Gli spaghetti. I miei spaghetti con il caviale, freddi, con un goccio d’ olio, pecorino, una macinata di pepe, sono il massimo della perfezione».

Cosa le dà fastidio in cucina?

«Ormai subisco tutto, accetto tutto. È inutile fare cultura, o uno ce l’ ha o non ce l’ ha. Il 19 marzo uscirà il mio libro Gualtiero Marchesi – Opere. Sono 140 immagini con alcune frasi. Gliele dico due. Una di Schönberg in quarta di copertina: “Le idee non possono mai perire, lo stile può anche cadere in disuso”. L’ altra è di Toulouse-Lautrec. Aveva scritto un libro di ricette: “In ogni arte, e ciò vale anche per la cucina, la grande raffinatezza consiste nella sintesi e nella semplicità”».

 Infatti è fan della cucina giapponese, vero?

«La adoro. Perché è purezza, ma quella che si mangia in Giappone, non quella di Milano. In realtà non sono contento di niente, vorrei qualcosa di più. Allora sono tornato alla materia».

 Ci racconti come sono nati i suoi piatti più famosi. Per esempio il “raviolo aperto”.

«Un amico un giorno mi porta un foglio di pasta. Poi viene da me un’ amica, una ristoratrice, e si lamenta che il giorno prima a un matrimonio aveva mangiato dei ravioli che si aprivano. Allora mi è venuta l’ idea di andare in cucina e usare così quel foglio di pasta: il raviolo aperto l’ ho costruito al momento. Le capesante allora non costavano niente, poi da quando le ho usate io le hanno scoperte tutti e sono andate su di prezzo. Allora poi ho dovuto mescolare i filetti di sogliola con le capesante sennò costavano troppo».

 E il “riso oro”?

«Conosce Marcialis, il famoso fotografo? Un giorno mi porta un pacchetto di questo oro. E mi dice: “Voglio fare un servizio sul giallo, la polenta, il risotto alla milanese…vedi tu”. E venne così. Ormai è il mio distintivo. Il lato estetico – che non è l’ apparenza – mi ha preso. Pensi quanto è importante la carrozzeria di un piatto».

Lei dice che tra i suoi tanti allievi il suo unico erede è lo chef Paolo Lopriore. Perché?

«Ognuno è diverso. Per esempio, Davide Oldani ha trovato una sua formula. Fa cucina pop ed è bravissimo, anche commercialmente. Ci sono stato pochi giorni fa a pranzo con mio genero. Si paga poco ma è bravo comunque. Daniel Canzian è stato tanti anni con me in Franciacorta. Fa una cucina creativa che mi piace, semplice, nel mio spirito. Paolo Lopriore adesso è stato anche a Madrid e ha presentato un nuovo progetto con cui porta il cibo in tavola con apparecchiature che permettono al cliente di interagire. Per me è un genio. Ne ho sfornati tanti, Ernst Knam il pasticcere…».

Gualtiero Marchesi con Davide Oldani

Gualtiero Marchesi con Davide Oldani

E Carlo Cracco?

«È bravo ma ho perso i contatti. Distinguo tra allievo e discepolo. Quest’ ultimo è quello che ha seguito la tua strada».

 L’ alta cucina è ambiente maschile?

«È un lavoro pesante, con pentoloni enormi. Poi si è modernizzato, infatti escono molte donne brave. Le dico una cosa. Milano è stata conquistata dai toscani. I migliori ristoranti storici – Giannino, che per me è stato il più bel ristorante, Il Rigolo, Le colline pistoiesi, da Bice – sono tutti toscani. E chi ci lavorava dentro? Donne».

 A livello di cucina regionale, quale preferisce?

«La Liguria, terra di montagna e non di mare, mi piace. E poi quella emiliana e romagnola. Anni fa feci dei panzerotti che ribattezzai “anelli di ricotta”, mi piace cambiare i nomi».

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 C’ è stato mai nella sua carriera un momento più difficile degli altri?

«Sono un po’ incosciente, non so fare bene i conti».

 Farà un resort a Castel Conturbia?

«Non va in porto. Peccato, era bella l’ idea di questo castello. Ma sono contento così».

 La cosa di cui va più fiero?

«La famiglia. Da parte di mia moglie, di origine siciliana, sono cinque generazioni di donne musiciste. Ecco le foto delle mie figlie e dei nipoti. C’ è il violinista, Guglielmo, suona in Germania. La fidanzata è arpista. Poi il violoncellista, Bartolomeo. La piccola è pianista, Lucrezia. Balla anche il flamenco. Poi un fluatista e una pianista: Michelangelo e Clio».

 Le dispiace che nessuno faccia il cuoco?

«No, sono contento, visto come sono venuti. Meglio di così?».

Alessandra Menzani

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