Red Sea Film Festival, i sauditi si buttano sul cinema

30 Nov

Molto spesso è il mondo dello spettacolo se non a determinare a velocizzare i cambiamenti sociali. E il cinema, in questo contesto, ha sempre avuto un impatto più potente delle altre arti. Non è un caso che dall’Arabia Saudita, uno dei Paesi più tradizionali del mondo, la seconda edizione del Red Sea International Film Festival, dopo una prima annata più classicheggiante con il nostro Giuseppe Tornatore presidente di giuria, osi un po’ di più affidando il ruolo principale all’americano anti sistema Oliver Stone, il più politicamente scorretto di Hollywood con quasi ogni pellicola: Snowden, Platoon, Fidel Castro, le interviste televisive a Putin.

E gli effetti si vedono tutti, soprattutto se consideriamo che qui il cinema esiste solo dal 2017, prima era considerato peccaminoso. “Credo che l’Arabia Saudita sia incompresa”, ha detto Stone, “sarebbe meglio venire di persona per farsi un’idea”.

Non ci si scandalizza neppure per Sharon Stone, il sex symbol anni 90, una che è diventata famosa per aver posato senza mutande in una delle scene più erotiche del cinema globale. (Basic Instinct). L’attrice è una delle star della rassegna, in scena fino al 10 dicembre a Jeddah, su Mar Rosso; si è raccontata in uno degli incontri della sezione “In Conversation”, in un luogo dove le donne locali fanno ancora fatica a togliersi l’abaja e il velo. Con una giacca di piume fuxia che sembrava del nostro Malgioglio, ha parlato di empowerment, rapporti uomo-donna (“Nessuna è la serva di nessuno”), Elizabeth Taylor, vagine, ha paragonato Dio a un hamburger, si è commossa e ha commosso rivangando capitoli dolorosi della sua vita, come la sua emorragia cerebrale e la morte di un nipote di meno di un anno a cui hanno donato gli organi. “Ma non hai paura ad andare in Arabia Saudita?”, le hanno chiesto gli amici prima del viaggio. E lei: “Io ho paura di ciò che non conosco. Facciamo che vado e poi vi dico”.

Sharon Stone al Red Sea Film Festival

Ma il divo è un altro, anche lui tipo trasgressivo: il nostro Luca Guadagnino, il regista italiano tra i più cosmopoliti del momento, creatore di pellicole non sempre facili, con amori fluidi e inclusioni. C’era più coda per sentire il verbo di Guadagnino che per ammirare per Sharon Stone, frotte di giovani fan sauditi che non si sono persi nemmeno un film. Omosessuale dichiarato, si è raccontato tra vita e cinema di fronte alla platea in un Paese dove l’omosessualità è fuorilegge e in una città punto di raccolta dei pellegrini per la vicina Mecca. Ha parlato di ispirazione, talento, delle star che ha lanciato come Timothee Chamalet, e in mezzo a tutto ha infilato qui e là un “Berlusconi disastro”, così a caso, quando capitava. Gli hanno chiesto che faccia a filmare scene tanto intime, lui dice che dipende “dal divertimento che si crea sul set, non sempre succede”, poi ha chiesto di abbassare l’aria condizionata, oggettivamente troppo alta in ogni dove, infine ha presentato l’ultimo film, che parla di cannibalismo, Bones and all con Timotee Chamalet.

Altri vip in ordine sparso: il regista britannico Guy Ritchie, gli attori Andy Garcia e Jackie Chan, le modelle brasiliane Alessandra Ambrosio e Sara Sampao, il prezzemolino Michele Morrone, Afef e tanta bella gente. Il mega galattico Hotel Ritz Carlton di Jeddah, frequentato anche dai reali, è il quartier generale dell’evento e nelle ultime ore è in fermento con operai che sfrecciano, pr che rincorrono i propri divi e camerieri che offrono datteri e caffè saudita. Quest’anno il codice d’abbigliamento tipico saudita per le donne (no braccia e gambe scoperte) per la prima volta è saltato: al red carpet si sono viste parecchie scollature e tra gli addetti ai lavori tante signore erano in maglietta.

Il film d’apertura è britannico, multiculturale, la commedia What’s love got to do with it (da un celebre pezzo di Tina Turner) dove il protagonista è un pachistano che decide di accettare il matrimonio combinato imposto dalla famiglia, e l’amica Lily James (già vista in Donwton Abbey) racconta tutto in un documentario. In tutto sono 131 i film in rassegna tra corti e lungometraggi, provenienti da 61 paesi in 41 lingue, opere di registi consolidati e emergenti.

Il programma è comprensibilmente concentrato su opere saudite, mediorientali in generale e africane, ma ci sono titoli anche europei (sopra) e internazionali. Come l’Arabia Saudita si sta aprendo alla modernità, vedi i diritti delle donne che oggi guidano e non sono vincolate dal maschio di famiglia, così il cinema locale cerca contaminazioni in tutto il mondo.

Nella competizione guidata da Oliver Stone ci sono 16 nuovi titoli di origine araba tra cui il candidato saudita all’Oscar, la commedia Raven Song. In gara anche il regista libanese Wissam Charaf, che racconta una love story tra due rifugiati che vivono a Beirut in Dirty Difficult Dangerous, poi il regista iracheno Ahmed Yassin Al Daradji con lo sperimentale Hanging Gardens, che segue un giovane addetto all’immondizia che trova una sexy bambola americana e l’indiano The Last Film Show Pan Nalin.

E poi spiccano Ruben Östlund (Palma d’Oro) nella satira sui super ricchi Triangle of Sadness e Martin McDonagh con la tragicommedia The Banshees of Inisherin.

Insomma il Red Sea è un evento che si pone come ponte culturale tra le produzioni cinematografiche del Middle East e quelle occidentali. Patron è sempre il giramondo Mohammed Al Turki, celebrato anche da una cover di Vanity Fair Italia: “Tutte le arti sono potenti ma il cinema le batte tutte: unisce le culture e avvicina i popoli”. E potrebbe anche essere un ottimo affare.

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