Diario di viaggio/ Andamane e lo shock dell’India

6 Set

Quella che sto per raccontare è una storia vera. Dimenticate gli agi di Singapore, il relax delle Perenthian, le simpatiche bettole di Cameron Highlights e i bus della Malesia che adesso mi sembrano la prima classe di un volo Emirates con champagne e ostriche. Siamo in India, ma questo non è tutto. Siamo alle Andamane e alla fine di questo post capirete di cosa si tratta e perché, probabilmente,  non ne avete mai sentito parlare.

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Antefatto. Per raggiungere Chennai, in India, da dove un volo ci avrebbe portato a Port Blair, la città principale dell’Arcipelango delle Andamane, nel golfo del Bengala, abbiamo preso un bus da Singapore per Kuala Lumpur, Malesia.

L’aereo per Chennai sarebbe stato alle 6 del mattino, così a  mezzanotte ci siamo guardati negli occhi e abbiamo avuto la brillante idea: perché buttare soldi in un albergo dove dormiremmo al massimo 3 ore? Facciamoci una comoda ronfata nell’aeroporto di Kuala, che è anche bello. E cosi è stato. Ma questo non è stato l’unico disagio. Perché dopo aver banchettato con una gustosissima pizza margherita malese convinte di pagarla al massimo 40 myr abbiamo letto il conto ed era di 90. E sì, avevamo clamorosamente finito i soldi.

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Da qui si sono susseguite una serie di congiunture negative: il caso ha voluto che la pizzeria non accettasse carte di credito, che fosse la festa nazionale malese (31 agosto) e che quindi nessuno ci cambiasse i soldi. Idem per i bancomat.  Io ero già pronta a lanciare la classica idea della fuga come Leonardo Pieraccioni nei Laureati poi ho pensato che passare il resto dei  miei giorni in una prigione malese non rientrasse esattamente nelle mie aspirazioni per il futuro. Allora, dato che benché non avessimo molti soldi, avevamo nel portafogli le valute di mezzo mondo – dollari di Singapore, euro, spicci malesi e io anche trecento pezzi di moneta dell’Oman che nessuno in dirci giorni ha voluto cambiarmi – abbiamo pagato con la valuta di Singapore prendendo una mezza fregatura fotonica. Ma almeno siamo usciti dall’empasse.

Bene, finalmente giunti in aeroporto abbiamo fatto uno studio scientifico per stabilire quale sarebbe stato il giacilio ideale per la notte: una zona vicino al bagno, non troppo di passaggio ma nemmeno troppo poco, possibilmente dotata di presa per caricare i telefoni. Abbiamo individuato un accogliente cantuccio di fronte a uno Starbucks,  così anche l’incombenza della colazione della mattina era svangata. Ho anche posizionato di fianco al nostro loculo una carrello per i bagagli, giusto per avere un tocco di privacy in più. Ho dormito circa un’ora, e devo dire che non è stata l’esperienza piu scomoda dell mia vita. Giusto qualche dolore osseo a causa della durezza del pavimento e un freddo siberiano che saliva dallo stesso. Alle quattro di mattina quando è squillata la sveglia avevo poco non dico di femminile ma di umano, e sono crollata 4 ore nel volo per l’India, anche con l’ausilio del Minas, 10 gocce,  che Dio le benedica. Una serena dormita. Ancora non sapevo – non sapevamo – cosa ci avrebbe attesi.

Lo dicono tutti: l’India è tosta. E se l’India è tosta innaginate cosa può essere il porto di un’ isola in cui il turismo praticamente non sanno cosa sia, i trasporti sono meno frequenti di un bel film in tv, le mucche e le capre girano in città, l’immondizia viene raccattata da un vecchietto con mani nude e secchiello, siamo in bassa stagione e il tutto viene gestito da quelli che avevano tutta l’ aria di essere figure militari o para militari.

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La domanda che vi sorgerà è: Perché cacchio sei andata nella Scampia del Bengala?

1) guardate le foto delle Andamane

2) la Lonely in questo senso non è stata chiara

3) leggerezza.

Il problema era fondamentalmente uno: raggiungere la vicinissima isola di Havelock, un luogo paradisiaco dove c’ era il nostro  resort, il Barefoot. Il problema è che noi – sicuramente sbagliando – ci aspettavamo una sorta di Ibiza-Formentera in quanto spostamenti marittimi. O quantomeno avevamo l’ ambiziosa idea di poter comprare un biglietto del traghetto sul momento. Come no. Praticamente è più facile trovare per strada 10 mila euro o Ryan Gosling voglioso di amoreggiare con te che prenotare un posto Port Blair-Havelock. Che per la cronaca sono distanti 40 km.

Abbiamo esplorato anche l’idea di affittare un elicottero, un volo privato, un peschereccio,  un deltaplano,  corrompere un militare indiano, di farcela a nuoto, ma nessuna delle opzioni era praticabile. E il primo biglietto di traghetto disponibile sarebbe stato dopo due giorni, quando ormani saremmo dovuti ritornare ma soprattutto con la rassicurante prospettiva di passare nella Rozzano dell’India altre 48 ore. Kobi, un ragazzo israeliano che abbiamo conosciuto durante la nostro calvario logistico ci ha detto che è stato ovunque nel mondo, anche nelle più sconfortanti regioni del Sud America, ma una situazione così non l’aveva mai vista. “Tutto questo  è la dimostrazione del grandissimo fallimento della popolazione inglese“, sintetizza Costanza riferendosi al controllo che il Regno Unito ha esercitato per molti anni.

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Eravamo in uno stato psicofisico di degrado tale che mancava poco che gli indiani ci facessero l’elemosina – loro a noi – quando con un colpo di reni e forse di culo, pazienza e tenacia ne siamo venuti a capo. Praticamente smuvendo mezzo corpo militare politico,  diplomatico e antopologico locale abbiamo acquistato quattro biglietti. E siamo saliti su una nave che era la cosa più lontana che avevo mai visto rispetto ad una imbarcazione destinata a passeggeri.

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Il momento di massimo trash lo ho raggiunto con un selfie con il capitano della nave che faceva molto Schettino e la moldava, senza conseguenze drammatiche e pruriginose, però.

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Siamo ad Havelock, finalmente. Praticamente abbiamo preso due aerei e un traghetto per trascorrre qui  un totale di un giorno e mezzo  come per  un week end a Milano Marittima. Sull’isola ha fatto brutto tempo un giorno e mezzo. E non qualche nuvoletta. Nubifragi che iniziavano alle 6 del mattina facendoci da sveglia (le rane invece facevano le veci della ninna nanna la sera).

Siamo sulla Beach n.7 al Barefooot Resort, ma putroppo non ci siamo goduti quella che il Time ha definito la “spiaggia più bella dell’Asia” anche se per dovere di cronaca devo segnalare il cartello “attenzione coccodrilli” dopo l’avvistamento, 4 anni fa, di un esemplare che si faceva un tuffetto sul bagnasciuga.

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Nella stagione giusta, con i trasporti che funzionano perché entrano in gioco anche i privati, e il tempo giusto,  Havelock sarebbe anche bella, con le spiagge cristalline,  le gite in barca, i fondali da sogno, il cibo squisito. Ecco, diciamo che noi, come i pensionati in villeggiatura alle Pianazze, ci siamo concentrati sui piaceri del palato, addirittura con cena finale a base di aragosta al prezzo di 38 euro a testa (in Italia forse avremmo dovuto vendere un rene per cotanta abbondanza).

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Ecco, chi è debole di stomaco è meglio che eviti la passeggiatina al vicino paesello: tra suggestive simil favelas, pali della luce fatiscenti, mercati del pesce con questi ultimi sbattuti sul pavimento  e indiani che sputano a ogni angolo, ho rischiato di riversare per terra i 38 euro di cui sopra.

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Diciamo che l’India non rietra nelle mie mete preferite, penso si sia ampiamente capito.
Ma devo ammettere che Chennai – dove abbiamo dormito la notte finale della vacanza – ci ha regalato momenti tragicomici che non dimenticherò facilmente.  Ci avevano avvisato che è una città brutta brutta senza consolazione.

Tra edifici maciullati,  sporcizia, squallore, gente che andava in quattro in motorino e il solito concerto di clacson, cercare un albergo decente è stata un’impresa. Soprattutto perché non avendo avuto il wi-fi per cinque giorni abbiamo svolto le nostre ricerche a bordo di un taxi con il conducente che emetteva rutti ogni venti secondi, però scusandosi, e dando la colpa a fastidiosi “gastric gas“. E non capiva che volevamo andare in un hotel decoroso e più che decoroso, al che il Fulgo, che per la prima volta in 20 annni ho visto lievemente turbato, gli spiegava che eravamo pronti a sborsare fino a “one thousand rupies and even more“.

Alla fine ce l’abbiamo fatta. E abbiamo pure scelto un albergo che di sera si trasforma (quasi) nel Delano di Miami con nightlife da paura e adolescenti indiane in vena di trasgressione. E con l’imprevedibile serata a Chennai la vacanza è finita. E l’India si è salvata al 90esimo.

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